Il silenzio non ti salverà
Sono una donna che si è destata
mi sono alzata e mi sono fatta tempesta (…)
Ho trovato la mia strada e più non tornerò indietro.
Ho spalancato le porte dell’ignoranza
ho detto addio a tutti i bracciali d’oro. [1]
Inizia con il movimento l’auto-liberazione di Meena Keshwar Kamal, poetessa e donna leader della resistenza afghana. Destare, alzare, spalancare e dire sono verbi che creano intorno alla poetessa, non solo la consapevolezza del proprio agire, ma anche quella di uno spazio nel quale il corpo può e deve esprimersi; essa si rende così visibile a se stessa, ma anche a noi.
La sua è un’auto-liberazione che nasce dall’auto-definizione, perché solo così il suo creare poetico-corporeo può trascendere la parola scritta per diventare flusso, danza, apertura. Un’apertura che parte dall’interno per sradicare all’esterno la violenza di cui le donne afghane e non sono vittime.
Poesia e immaginazione, quindi, come recipienti di un sentire personale e intimo, nel quale seminare, cogliere e rivelare, ma anche dipanare distanze tra il dire poetico e il sentire corporeo, tra uomo e donna, tra Śiva e Śakti, per arrivare insieme al centro di uno spazio vitale, che per essere conosciuto deve continuamente rinnovarsi.
La donna, però, è da sempre stata oggetto di dualismi e divisioni. A partire forse dalla più famosa di tutte in occidente: Maria la madre di Gesù. La sua immagine è stata consacrata, contesa, ma anche strumentalizzata e politicizzata.
Il dualismo non ha risparmiato neanche le figure mitiche e le dee. La grande Madre egizia Iside era chiamata la maga e la strega: quando era in collera era la strega, quando era benevola era la madre redentrice, colei che dà alla luce il figlio del sole.
Nel pantheon induista, invece, nella sua forma benevola la dea è chiamata Annapūrṇa (dispensatrice di cibo e abbondanza) oppure Mahādevī (la grande dea, splendore o trascendenza) ma anche Bhramari, (simile all’ape). In quella terribile è Bhairavi (la terribile/la spaventosa), Rajasi (la violenta), Chandi (la furiosa), e poi la più famosa di tutte Kālī la nera, la dea dalla lingua rossa di sangue, la selvaggia che al collo, invece di portare collane d’oro, porta dei teschi.
Nei testi religiosi indiani Kālī come moglie di Śiva, nella forma di Pārvatī o Satī appare discreta, bella, calma, gentile e amorevole. Ma quando è piena di rabbia o desiderio, la dea si divide in due, crea un sé ombra per esprimere sentimenti e emozioni che spesso vengono nascosti dal pudore, la paura o la vergogna. Questa danza tra interiorità ed esteriorità, verità e illusione è il centro del suo culto, un centro nel quale si raccoglie chi si domanda come navigare il dualismo dei sentimenti e dare voce al proprio essere.
Per Kālī, così come per Meena, dar voce all’interiorità significa prima di tutto destarsi: per Meena da un sistema che la vuole sottomettere, per Kālī è rinascere dal sopracciglio di Durgā, la dea guerriera, l’incarnazione dell’energia femminile creativa la Śakti. Una dea simile a Durgā è Anat dea cananea della Terra, della fertilità, ma anche divinità della guerra.
Ciò che accomuna quasi tutte queste dee è il loro legame con la terra come profondità ctonia. Un legame che le porta verso il basso, verso il grembo atavico dal quale la vita ha inizio. In questo luogo tellurico, concavo di un sentire intimo, il nero da semplice colore primario diventa simbolo di potere, magia, occulto e fertilità, ma anche emblema di paura, male, morte e ignoto.
Incontriamo l’ignoto soprattutto quando ci avviciniamo alla morte o a un dolore profondo. All’improvviso veniamo spinti verso il regno di Persefone e di Kālī, un regno nel quale s’annidano ferite mai cicatrizzate, parole respinte, sentimenti sottratti e/o violentemente soppressi, colpe ingiuste e ignorate, vergogne nascoste, pensieri e desideri estirpati perché figli di un sentire incerto, inadeguato o troppo nostro.
Questo luogo chiamato il basso, altro non è che un luogo intero, nel quale lo sguardo dell’indifferenza non può esistere e l’esilio non è mai contemplato. È una terra dalla quale non si può fuggire.
Eppure non è terra ostile, solo paludosa, non è neanche dura, ma acquosa. Si sfalda nel momento in cui abbiamo il coraggio di aprirci alla sua verità. A volte però proprio quando ne avremmo più bisogno, la verità ci appare più falsa della falsità. Così abbiamo fretta di risalire in superficie e di credere che da noi stessi e dal dolore possiamo fuggire. Ma mai come quando ci avviciniamo a una ferita profonda andiamo anche vicino alla verità.
La verità che dice: dentro a questo grembo oscuro risiede l’energia del movimento cosmico che niente rifiuta, e nel quale bene e male fanno parte di un’unica danza.
In questo luogo dal richiamo ancestrale perdita e cura diventano parole che s’abbracciano, che cercano respiri. E proprio da questi respiri si apre un dialogo interiore, un’intimità nuova che non si chiede solo perché è successo ma anche, e soprattutto, come dar voce al dolore?
Trovare risposte a queste domande significa, prima di tutto, volgere l’attenzione al mondo tellurico del nostro essere. È occuparsi di quello che è rimasto nell’ombra, in solitudine, mai detto, mai conosciuto, mai toccato. Ma è anche chiedersi, come fa Montale nella Casa dei doganieri „il varco è qui?“, sperando che ci sia ancora una possibilità di ricongiungersi, invece di cicatrizzare l’oscurità del dolore con il rifiuto e il silenzio.
Un figura femminile che ha provato a dare una risposta alla domanda di Montale è stata Šahrazād, la protagonista di Le mille e una notte, raccolta di fiabe orientali con un entroterra mesopotamico, egizio e persiano.
Di lei sappiamo che è stata una grande narratrice e una grande filosofa. Il suo nome significa colei che viene dalla città, abitante della città o nata nella città. La città che salva dal re Shahriyar, il quale dopo essere stato tradito dalla sultana, decide di vendicarsi delle donne sposando una fanciulla al giorno, per poi ucciderla al sorgere del sole. Fino a quando Šahrazād, aiutata dalla sorella Dunyazād, non escogita un piano per placare l’ira dell’uomo. Per far cessare l’eccidio e non essere lei stessa uccisa ogni sera racconta al re una storia, rimandando il finale alla sera successiva. Va avanti così fino a quando non salva il regno e se stessa.
Offrendosi come moglie Šahrazād riconosce e affronta quello che Jung chiamò l’ombra, l’ombra che potrebbe essere anche dentro di lei. Infatti Šahrazād, pur sapendo della condanna a morte, non ignora mai il male, ma gli va incontro, non con ingenuità, come fece Antigone, e neppure senza un’arma.
Il suo potere non è però, come si potrebbe pensare, l’immaginazione e l’intelletto ma paradossalmente, il silenzio che nasce dall’ascolto. Perché è negli intermezzi, mentre aspetta la continuazione della storia, che il sultano comincia a cambiare. Il suo non è un improvviso risveglio di compassione verso il mondo femminile, ma una lenta presa di coscienza, una contemplazione notturna, nata sì dalla magia delle parole ma radicata nel silenzio dell’ascolto.
Ed è proprio questa coppia di opposti in reciproca unione che porta Šahrazād a essere sì una filosofa-artista che conosce il valore del linguaggio, ma anche una maestra del silenzio interiore, perché come ci insegna Kierkegaard, il silenzio interiore è prerequisito fondamentale affinché possa esserci azione senza oscillazione alcuna.
Dopo esserci avvicinati alla storia di Šahrazād si può pensare che solo nei miti e nelle favole si trovano personaggi senza paura. In realtà in loro, così come in Šahrazād la paura non cessa ma si trasforma. In cosa? In fede. Non una fede religiosa, ma un sentimento che spinge a bussare a quella porta chiusa che è, e diventa, il cuore umano quando si trova nelle viscere del dolore.
Quello che però è ancora più straordinario non è solo la fede di Šahrazād, bensì la possibilità che il sultano stesso le dà. Ma perché lo fa? Perché il male non si può scindere dal bene? Perché il dolore non è solo disgregamento e fine, ma anche unione, ritrovamento, rinascita?
A queste domande non ci sono risposte preconfezionate, e neanche verità assolute, ognuno arriva a superare il dolore in modi e tempi personali, quello a cui io ho dedicato studio e attenzione è quello che la religione e la filosofia indiana chiama la danza cosmica di Śiva.
Fritzof Capra nel “Il Tao della fisica”, spiega questa danza attraverso la fisica moderna:
«Ogni particella subatomica non solo esegue una danza energetica ma è anche un processo pulsante di creazione e distruzione … senza fine … Per i fisici moderni, la danza di Śiva è la danza della materia subatomica. Come nella mitologia indù, è una danza continua di creazione e distruzione che coinvolge l’intero cosmo; la base di tutta l’esistenza e di tutti i fenomeni naturali.»
Che cos’è quindi la vita umana se non un movimento dinamico, un destarsi, spalancare e dire, ma anche un accogliere, accettare e capire. Un processo di creazione e distruzione che non reprime, scinde e sradica l’altro da noi, ma impara a dargli una forma, ne acquisisce il linguaggio e la grammatica, per poi farlo diventare energia vitale dell’espressione del Sé.
Questo torrente d’illimitati movimenti l’ha espresso bene la poetessa di etnia azerbaigiana Marziya Ahmadi Uskuyi, in arte Onda, in questi versi:
«(…)L’acqua stagnante - lo sapevo -
si strozza.
Vita è movimento.
In me era nata una vita,
e un movimento infinito.
(…) Lo so che essere è provare, non essere niente è sostare.»
Anche lei come Meena sente il movimento come forza creatrice. E il suo “non essere niente è sostare”, non è la negazione della contemplazione o del raccoglimento, bensì, l’intersezione del richiamo primordiale che ci dice che di volta in volta bisogna cercare il cambiamento in se stessi, correre verso quello che ci sale da dentro e dar voce a tutta la nostra persona. Perché solo partecipando in essa si può conoscere la vita, solo attraverso il coinvolgimento si può conoscere se stessi.
Forse poche poetesse hanno dato voce a tutto quello che sono state come Audre Lorde. Nera, Lesbica, Guerriera, Poeta così amava presentarsi, lei che con la sua voce ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femministi, Lgbt e delle persone di colore, per arrivare a tutti noi.
Così come Marziya e Meena anche Audre incita all’azione e proprio lei ci dice: il silenzio non ti salverà e ancora ci ricorda che la qualità della luce con cui esaminiamo le nostre vite ha un rapporto diretto con i cambiamenti che speriamo di portare in quelle vite stesse.
La poesia di Audre non è, però, solo movimento, ma anche meditazione, soprattutto quando entra nella luna, come nella poesia L’unicorno nero:
«… la forza di una donna,
non è nel grembo di lei che il corno riposa
ma nel profondo del suo cratere di luna
crescente.»
E risplende con maggior forza nell’oscurità della terra, dove giace la Grande Madre, e dove incontra la mitologia africana, la dea Yemanja, dea degli oceani presso i popoli Yoruba nella Nigeria occidentale, o la dea Eshu o Seboulisa. Audre rinasce, dunque, nel colore della notte, nel nero assoluto parlato dalle viscere della terra, dove il potere nero si trasforma per esplodere in piena luce, come nella poesia Carbone, o in Sorella Outsider, dove incita le sorelle nere, ma anche tutti noi a conoscere le parti oscure per poter rinascere:
«(…) ma voglio che tu
conosca
la tua oscurità altrettanto
potente
ben oltre la paura.» [5]
Per poi lasciarci con parole che fanno vibrare le stringhe del cuore:
«(…) se in questa zona fertile ci rimaniamo abbastanza, se impariamo da questo luogo a sopportare l’intimità del nostro stesso essere, se impariamo a prosperare al suo interno, se impariamo a usare i suoi prodotti per accendere il fuoco interiore e la nostra vita, allora le paure che ci governano e formano i nostri silenzi inizieranno a perdere il loro controllo su di noi. Allora, solo allora potremmo dare luce alle parole, alle moltitudini delle nostre anime, solo allora potremmo cambiare noi stessi.» [2]
Audre Lorde, dunque, ci insegna che solo dando voce alle moltitudini delle nostre anime, possiamo giungere a quello che la filosofia indiana chiama ātman il Sé, questo Sé che:
«Come un ragno che si muove lungo il suo filo, come una scintilla che scaturisce dal fuoco, così da questo Sé emanano tutti i respiri, tutti i mondi, tutte le divinità, tutti gli esseri. Il suo significato segreto è la verità delle verità.» (Brh, II, 2, 20)
In un passaggio delle Upaniṣad (testi che fanno parte del corpus esegetico dei Veda, i testi religiosi indiani) a un saggio viene chiesto: che luce ha una persona? La luce del sole, dato che è con una tale luce che ci si siede, si muove, si lavora e si torna a casa, risponde il saggio. Ma quando il sole tramonta, che luce ha un persona? Questa volta il saggio risponde che una persona ha la luce della luna. E se mancasse la luna? Il saggio dice che una persona ha la luce del fuoco, e se il fuoco mancasse? Allora ha la luce della parola. Dopo un po’ al saggio viene chiesto cosa succede quando la luce della parola cessa. Il saggio risponde: allora una persona ha la luce dell’ātman, del Sé. Più piccolo del piccolo, più grande del grande l’ātman risiede nel cuore di ogni creatura. [Kaṭha, I, 2, 20]
In questo passaggio di straordinaria bellezza veniamo, ancora una volta, invitati non solo ad agire, riflettere, cambiare e esprimerci ma soprattutto ad aprire il cuore all’infinita possibilità che solo l’atto creativo, che è sempre un atto di fede, ci dona. Così ritorniamo alla fede di Šahrazād e al suo narrare poetico: un magma di interiorità che sboccia in un linguaggio creativo che comunica con tutti i linguaggi, perché esso risiede nel cuore di ogni creatura.
Si potrebbe pensare che l’ ātman sia solo un concetto metafisico, in realtà è sempre intorno a noi, non solo come forma d’arte ma natura. Ed è proprio guardando la natura, ascoltando il suo cuore terroso, lunare, acquatico e etereo che ci accorgiamo d’essere parte di lei. Giuseppe Bonaviri ha saputo rappresentare questo Sé che risiede nel cuore di ogni creatura in un passaggio del Il sarto della stradalunga.
Siamo a Mineo, in provincia di Catania, nella Sicilia degli anni ‘50. Pietro vive in una realtà povera, analfabeta, contadina, legata a pochi piaceri come la gioia nel festeggiare Sant’Agrippina. Pietro, in questo circolo, è considerato un letterato, perché a differenza degli altri sa leggere e scrivere. Antonio, invece, suo amico e confidente, è analfabeta e più povero di Pietro. La domenica Pietro e Antonio, se ne vanno a fuori porta e parlano della luna. Sentiamo, dunque, cosa si dicono:
Antonio: Caro Pietro, io quasi non ci credo che la luna si trovi oltre l’atmosfera.
Pietro: Ma i libri parlano chiaro. Anch’io quando la luna è piena, ho l’impressione che si muova e si impigli quasi nell’aria che circonda la nostra terra.
Antonio: Eppure ti dico che se restassimo in ascolto sulle rocce di Santo Pòlito, verso mezzanotte sentiremo il rumore felpato che fa la luna camminando su di noi.
Pietro: Sarebbe bello.
Antonio: Se il vento fosse forte, potremmo vederla scendere, ondeggiando, e fermarsi certamente fra i rami del grande carrubo che c’è accanto alla mandria delle pecore.
Pietro: Ragioniamo come bambini anche noi. La luna invece è grande quanto l’America del Nord e arida come le viuzze di Mineo in questi mesi.
Antonio: Certe cose fanno paura solo a pensarci. Sicché se potessimo con un apparecchio, tu e io, trasportarci sulla luna, vedremmo cose dell’altro mondo.
Pietro: Dapprima vedremo Mineo piccola come una zuppiera, coi suoi vecchi campanili, poi allontanandoci sempre più, vedremmo l’Italia come una macchia, l’Europa e poi la Terra coi suoi continenti che navigano sul mare che si muove e fa la schiuma.
Antonio: Affacciandoci dalla luna, vedremmo allora il nostro mondo trasformato in una montagna piena di nebbia, girare come una trottola ora bianca ora nera.
Pietro: E accanto alla Terra vedremmo Marte, Venere come altre rocce sospese e voltolanti in un’alba informe di luce. (…) Caro, Antonio, quando penso a tutto questo mi sento piccolo come un pulcino appena scovato.Antonio era stordito, con gli occhi che non seguivano niente, ma io concludevo la sua natura di forte sognatore.
Pietro: Eppure la scienza ha spiegato tante cose. Ciò che oggi pare oscuro, in avvenire sarà chiarito dietro le leggi bizzarre, ma sicure, che fanno muovere la Terra, i Pianeti e anche la Via Lattea!
Queste riflessioni ci ubriacano, e per quanto scopriamo la nostra vera natura di esseri piccoli travolti nei giri della Terra attorno al sole, pure ci sentiamo vagamente soddisfatti.
Questo passaggio ci riporta dunque nello spazio notturno di Šahrazād e nel varco di Montale. Questa volta però, sia dall’uno sia dall’altro luogo, scorgiamo la luce. Pietro e Antonio sono dei contadini poveri senza risorse, eppure nonostante ciò sanno guardare oltre l’orizzonte. Pietro è quello che dà le risposte più giuste, è un uomo di scienza, uno uomo che ha letto, ma è Antonio, l’analfabeta che capisce una semplice verità, quella che la filosofia indiana chiama brahman (la realtà ultima), la coscienza universale, la connessione tra microcosmo e macrocosmo.
Questo loro rituale di contemplazione, ancora una volta, diviene parola e silenzio, quella coppia di opposti che nascono l’un d’altro, che si sostengono e si controbilanciano a vicenda. Pietro sa i fatti ma è Antonio che ci espande, diventando immaginazione, magia e cuore. La sua fantasia ha il potere di farci vedere la luce.
Entrambi pur sapendo d’essere solo un piccolo punto nell’universo, e quindi più piccolo del piccolo, arrivano a percepire, attraverso vie diverse, il più grande del grande: l’universo intero. Ed è nell’intersezione di questo sentire che nonostante tutto diventano città libere, è lì che Šahrazād non è solo colei che viene dalla città, ma lei stessa una città libera.
È nel momento della connessione tra voce personale e consapevolezza universale che l’essere umano può tentare, mentre guarda nel buio, mentre con grande pazienza racconta le sue piccole storie, mentre cerca di vivere, di conoscere se stesso e superare il suo dolore.
Per concludere vorrei lasciarvi con le parole, del carissimo Tiziano Terzani, che scrisse, in una lettera del 19 agosto 1990 da Daigo in Giappone, alla figlia Saskia:
«Pensa alle cose che hai dentro, alla forza, alla fantasia, al potenziale di felicità che hai ancora da scoprire solo dando al tutto l’occasione di venir fuori. Quell’occasione bisogna dargliela, perché è triste pensare alla gente che quell’occasione non se l’è mai data e alla fine se ne va credendo di non aver mai potuto essere nient’altro»
E in un’altra lettere del 13 dicembre 1999, da Hong Kong, Terzani le domanda:
«E tu dove hai la tua stella?
E io domando a voi, voi dove avete la vostra stella?
[1] https://bit.ly/3efwQZj
[2] A. Lorde, Your Silence Will Not Protect You Essays, Silver Press, 2017 (traduzione mia)